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IL DOTTOR QUARANTA
di Carlo Mariano Sartoris

Conoscevo il dottor Quaranta da vent'anni e orma da dieci, mi dava del tu. Il dottor Quaranta aveva appena superato i cinquanta, che faceva cento sommato alla sua taglia, un quarto della sua parcella. Un metro e ottanta, Quaranta era un bell'uomo, brillante spendaccione, vigoroso e benestante, un donnaiolo pieno di vizi e portatore sano di qualche nobile virtù.

Quaranta era comunque un buon medico, e questo non è poca cosa in quel mestiere che richiede occhio, stomaco e senso di responsabilità . Sapeva il fatto suo e più di una volta aveva curato come si deve i malanni ai quali era abbonato il mio fisico, gracile e asciutto.

Il dottor Quaranta fumava come un turco e non tossiva mai, beveva bourbon, ma non stava mai male, faceva strage di cuori, tirava tardi, ma alla mattina era sempre fresco come un bocciolo. Invidiavo il dottor Quaranta, il suo carisma provocante ed il suo fisico eccezionale, lo invidiavo, ma senza malizia, mi era simpatico, ma un poco lo invidiavo, nonostante avesse qualche anno più di me, ordinario elemento di genere maschile, onesto contabile e mediocre ragioniere.

Il dottor Quaranta era persona gradevole dalla battuta fulminante, ma quel pomeriggio non era certo riuscito a rallegrarmi l'esistenza anzi, me l'aveva appesa a un filo, rifilandomi una mazzata nel cervello, assai pesante da incassare.

- Vedo un'immonda situazione, caro amico mio -, mi aveva detto con fare sornione dopo aver analizzato con cura le mie lastre; e poi aveva ripetuto: - che macello vedo! Brutto quadro globale, brutto davvero! -, indugiando sul verdetto ed accrescendo la mia preoccupazione; poi, dopo una pausa interminabile, poggiandomi una mano sulla spalla, aveva proseguito nella nefasta rivelazione.

- Caro amico, smettere di fumare è la prima cosa da farsi, lasciar perdere le donne, niente alcolici e caffè è la seconda. Tentare di dare una disperata ripulita a questi relitti d'arterie, ahimè, per tentare di ritardare il trapasso, è la terza, mi dispiace caro, mi dispiace...-.

Il verdetto era stato lapidario, il mio cuore era agli sgoccioli e, a Dio piacendo, nonostante gli interventi, il tempo che mi rimaneva era destinato ad abbassare la media nazionale.

Il dottor Quaranta sapeva come modulare le parole, ma la sinfonia suonava a requiem e, mentre continuava a spiegarmi i come dei perché, la mia mente aveva iniziato a viaggiare da sola, presentandomi il conto della mia vita e prospettandomi il prematuro, futuro avvento della mia prossima, anticipata morte.

Il dottor Quaranta parlava, ma non riuscivo a captare nulla. Come in un film accelerato, dentro al cervello scorrevano le immagini di me, giovane a tentare di tenere il passo degli amici pestando sui pedali della bicicletta; riassaporavo il gusto molle del mio primo, tremante bacio d'amore rubato in un cinema di periferia, rivedevo gli anni della scuola, l'università, il volto di mia moglie Maria. Riavvolgevo in pochi istanti tutta la mia esistenza e poi vedevo lei, Martina, da poco arrivata al reparto acquisti, la mia giovane e romantica amante, la prima, vera trasgressione della mia vita.

Per campare un giorno in più avrei dovuto rinunciare alle leste poesie che mi applicava nel retro dell'archivio, alle languide carezze, alle mie sette sigarette, al bombolone caldo, al cicchetto di Vecchia Romagna che mettevo nel caffè, ed al caffè ristretto, lui stesso, a me bandito.

Il dottor Quaranta, che di trasgressioni era un impunito collezionista, raccontava cause ed effetti, mentre io immaginavo l'istante del trapasso, partecipavo al mio modesto, ma pur costoso funerale, scorrevo i volti tristi di alcuni e quelli ipocriti di altri. Dopo i primi attimi di terrore ero stato assorbito da un senso di impotenza, da un amaro fatalismo, e lo smarrimento aveva scalzato la paura. Immaginavo la mia morte e non riuscivo a crederci, anche se la sentivo già serpeggiare dentro di me, tra le mie viscere, annunciata da quei mancamenti che ultimamente mi avevano colpito sempre più spesso e che mi avevano indotto a recarmi lì, a chiedere consiglio al dottor Quaranta. In breve ero già arrivato oltre il momento della sepoltura e già pensavo all'aldilà, al Paradiso e all'Inferno, al sonno eterno.

Stavo facendo il computo dei miei peccati e, senza volerlo, inconsciamente invocavo il perdono divino, indugiando sulla donazione d'organi e riflettendo su di un'occasione più economica: una temeraria cremazione.

Frattanto, il dottor Quaranta, pirotecnico come sempre, riusciva a sbrogliare cinquanta cose nello stesso istante. Scriveva ricette, parlava con me, sbraitava cose alla segretaria e, nel frattempo, telefonava.

In un attimo di lucidità, cercando di fuggire dai miei nefasti pensieri, intercettai il dialogo...

- Quante volte ti ho detto di non chiamarmi in studio, lo sai che sto lavorando, no... vabbè, si, si, non fare i capricci adesso, non dirmi così, dai gattona si, si, sono sempre il tuo micione,..a stasera -. Clik! - ma dove l'ho trovata questa!? -.

In quel preciso momento la mia invidia si inoltrò tra i canoni dell'ingiustizia, assestando un ulteriore colpo al mio morale.

Il dottor Quaranta, sfacciato e inopportuno, se la stava menando con una delle sue pulzelle da venti, aveva domandato di avere un caffè e giocherellava con il pacchetto delle sigarette proprio mentre io stavo dicendo addio a tutto quel ben di Dio.

A quel punto, posata la cornetta, divagando dall'infelice discorso professionale che mi aveva stravolto, turbato dalla telefonata si rivolse a me con fare complice, cercando sollievo per il suo umore innervosito.

- Quella puttanella, un altro paio di scarpe! Meno male che non è un millepiedi. Più gliele dai vinte e più ne vorrebbe. Non fosse che a letto è una pantera, lei e quelle due chiappette di gomma...mmm... a quest'ora le avrei già regalato un barboncino e pussa via!... -.

Senza smettere di pensare ai casi suoi, il dottor Quaranta, aveva cercato autocontrollo in una di quelle dannatissime sigarette francesi, quelle che spaccano i polmoni ai comuni mortali, l'aveva accesa senza ritegno sbuffandomi in faccia quel fumo che non avrei dovuto assaporare mai più, poi si era sollevato dalla poltrona girevole e si era avvicinato, appoggiandomi una mano sulla spalla, tornando sul discorso primitivo pronunciando:

- Caro amico, sono davvero desolato, ma le possibilità di preservare la pellaccia sono veramente appese a un filo, fatti coraggio, che la vita è un passaggio - poi aveva tirato un'altra nota profonda ed era successo il resto.

Il dottor Quaranta aveva stretto forte la mia spalla, poi mi aveva guardato fisso spalancando gli occhi, era sbiancato come un'aspirina e mi era scivolato addosso.

Il dottor Quaranta era morto sul colpo, stecchito da un infarto fulminante, accoppato dalle sue pulzelle di vent'anni, cotto dalle sigarette tritapolmoni e beffato dalla sua inconsapevole certezza di essere un Essere eterno ordinato da Dio nel diagnosticare il momento della dipartita altrui. Compresa la mia. Non aveva avuto il tempo di prendersi una strizza, né di redimersi, né di rivivere la propria vita, non era stato obbligato a cozzare con la fugacità dell'esistenza e l'agguato della morte, e metabolizzarli così come ero stato costretto a fare io nell'arco di pochi, eterni minuti. Fortunato anche nella morte, era schiattato in un amen e basta.

Andai al sontuoso funerale del dottor Quaranta, osservai i volti della gente: qualche giovane e avvenente fanciulla piangeva davvero (lo invidiai anche se steso dentro alla Mercedes nera), un'altra, più attempata, quella che aveva pagato le spese, fin troppo ben sorretta da un amico male afflitto, calzava nuvolosi, quanto fugaci volti di circostanza.

Andai al funerale del dottor Quaranta preparandomi al mio.

Qualche giorno appresso, triste come un calzino spaiato, tornai allo studio del dott. Quaranta e feci conoscenza con il suo giovane sostituto.

Il giovine di belle speranze, dopo aver controllato le analisi mi disse seriamente:

- La scienza fa progressi e la farmacologia anche, forse lei non è poi così grave... forse no, ragionier Perotto -.

Tutto questo accadeva cinque anni fa e ripensando a tutti i calcoli sinistri che feci allora, oggi, a cinque anni di distanza, non posso far altro che sorridere ragionando sulla casualità aritmetica.

Cinque Perotto fa Quaranta!

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Bello questo racconto, ne posso leggere un altro?